limitare le emissioni di CO2 in atmosfera, gli
oppositori a tali propellenti sostengono invece che
aumentare le superfici agricole da destinare a tali
colture sottrae terreno fertile per l’alimentazione
o peggio ancora contribuisce alla deforestazione di
aree del pianeta, oltre che far aumentare i prezzi
delle principali derrate.
Tuttavia, nel dibattito in corso, sembra che almeno un aspetto non sia stato ancora debitamente considerato, vale a dire l’incidenza di tale questione sulle politiche globali (sia di global warming che di food security). Infatti mentre in molti si soffermano sul rischio di deforestazione del sud est asiatico, per fare posto a nuove culture ad uso industriale, in pochi hanno messo l’accento che la desertificazione dell’Africa invece avviene proprio perché le popolazioni indigene hanno abbandonato l’agricoltura tradizionale ormai non più redditizia.
Oppure sono ancora meno coloro che hanno posto l’accento sul fatto che la più grande riserva di acqua potabile sotterranea del continente americano (Ogallala, immensa falda che nasce dalle Montagne Rocciose e si estende fino al pacifico, attraversando 8 stati) è stata prosciugata dall’agricoltura per uso industriale (colture di cotone e di tabacco) e non per uso alimentare.
Oppure, nessuno, forse, ha mai azzardato il confronto con il consumo di territorio e di deforestazione sistematica che è in atto da secoli nel nostro Paese per far posto alle tanto rinomate vigne italiche (che producono sì beni considerati alimentari ma che tuttavia non sfamano nessuno) a scapito della macchia e boschi (dove è finita la famosa selva oscura di Dante?).
Quindi, da queste audaci considerazioni, si può logicamente affermare che l’agricoltura va di pari passo con l’evoluzione umana, va dove il mercato richiede prodotti. Il nocciolo del problema è verificare se è più opportuno che un contadino di un Paese in via di sviluppo abbandoni l’agricoltura, magari andando ad ingrossare le bidonville delle metropoli, o se è meglio che continui a lavorare la terra e produca comunque un prodotto che ha mercato, anche se non commestibile.
Oppure, per rimanere in occidente, meglio il set a side che ha perdurato per decenni nella Ue (per mantenere appetibili i prezzi ai produttori) o meglio la conversione ecologica ai biocarburanti, creando magari una nuova filiera? Quando ciascuno di noi quotidianamente entra nella propria automobile (magari sentendosi ecologicamente corretto perché Euro 5) non può più prescindere dal considerare che sta usando carburanti di origine fossile.
Infine l’altro dilemma che noi occidentali non ci siamo posti è quando abbiamo voluto i jeans di cotone, il vino sulla nostra tavola e le sigarette nella borsa, o quando abbiamo glorificato le “dolci colline del Chianti” (che una volta, ricordiamolo, erano boschi). Il dilemma invece ce lo poniamo quando queste scelte riguardano i Paesi emergenti o in via di sviluppo. E per giustificare questa nostra ingerenza, spesso il termine forte adoperato è che queste colture per i biocarburanti danneggiano proprio i più poveri per la limitatezza delle risorse alimentari (di Malthusiana memoria), quando sappiamo benissimo che il problema non è quanto produciamo (da anni siamo in sovrapproduzione agricola, coltiviamo e peschiamo più di quanto consumiamo), ma semmai a quanto lo vendiamo.
La fame nel mondo esiste perché due miliardi di persone non hanno soldi per comprare il cibo, non perché manca effettivamente il cibo. E se non diamo un reddito ai contadini dei paesi del sud del mondo, questi non potranno mai sfamarsi. Fargli produrre un bene che ha mercato significa contribuire a sviluppare reddito, quindi diminuire progressivamente i problemi di sicurezza alimentare. E se questo, inoltre, contribuisce a rispettare il protocollo di Kyoto, è ancora meglio. (Aldo Ferretti
greenreport.it)
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