Camaldoli: la sapienza dei monaci benedettini per salvare i boschi

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Lunedì, 31 Maggio 2010

 

AREZZO – Alcune pagine sembrano essere scritte da ecologisti contemporanei tanto sono attuali. E quasi si fondono, mille anni dopo, con la tremolante cultura ecologica del Terzo Millennio. C’è un codice, opera della sapienza dei monaci benedettini camaldolesi, che oggi racconta verità sulle foreste e insegna non solo a rispettarle ma a «sfruttarle» senza deturparle. Ed è così straordinario da poter essere studiato per pianificare il territorio con «grandissima cura, & diligenza», per evitare «che i boschi non siano scemati, ne diminuiti in nium modo, ma piu tosto allargati, & cresciuti», come scrivevano i monaci nel 1520.

IL CODICE - Dopo sette anni di ricerche, il 28 e 29 maggio nel monastero di Camandoli a Poppi (Arezzo), l’Osservatorio foreste dell’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) presenta Il Codice forestale camaldolese, un progetto che ripropone lo sterminato archivio dei monaci con una banca dati su internet dove sono stati digitalizzati libri, lettere e documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze e la Biblioteca e l’Archivio di Camaldoli e una miriade di carte e di scritture «minori» (contratti, verbali, promemoria e corrispondenza di vario genere) sparse in archivi, biblioteche e collezioni private. «Il Codice forestale camaldolese non rappresenta soltanto la sintonia tra ricerca spirituale e cura della foresta», spiega il coordinatore del progetto Raoul Romano, «ma costituisce una complessa serie di norme e disposizioni con le quali per secoli, i monaci camaldolesi hanno gestito e tutelato le loro foreste. Gran parte del materiale prodotto in 857 anni è già disponibile in una banca dati online e sul portale è già possibile visionare una prima reale ricostruzione del Codice e approfondire lo studio diretto di questi documenti».

BANCA DATI - Una banca dati non fine a se stessa. Perché dallo studio dell’archivio sono già arrivati spunti sullo sviluppo compatibile, secondo i principi della sostenibilità ambientale, dell’equilibrato utilizzo delle risorse naturali territoriali e della salvaguardia delle culture locali. Le stesse cose che i monaci avevano capito già nel medioevo. E avevano messo in pratica, con incredibile pragmatismo, sviluppando sistemi agricoli, silvestri e pastorali e dando impulso all’economia rurale locale definendo e modellando un paesaggio che oggi ben conosciamo e cerchiamo di tutelare. «Il rapporto e il ruolo che i camaldolesi hanno avuto con le foreste casentinesi», continua Romano, «rimane unico nella storia dell’Appennino. I monaci hanno definito un nuovo equilibrio ecologico, custodito e mantenuto nei secoli con interventi colturali, tagli, semine e piantagioni fino a delineare quel paesaggio da tutti oggi riconosciuto come un patrimonio ambientale unico».

PARCO NAZIONALE - Insomma, la gestione delle foreste realizzato dalla Congregazione benedettina di Camaldoli ha definito il paesaggio e la biodiversità appenninica. Oggi protetta dal Parco nazionale delle foreste casentinesi che gli stessi camaldolesi hanno contribuito inconsapevolmente a realizzare. «Ciò che è avvenuto nei secoli sulle montagne aretine con la diffusione dell’abete bianco a discapito del faggio», spiega Romano, «o con la diffusione del castagno per i suoi frutti in altre zone o la realizzazione di sistemi agro-silvo-pastorali integrati erano spesso inconsapevoli esempi di gestione economica locale sostenibile». Oggi tornati di attualità. (Marco Gasperetti - corriere.it)

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