Terraa! Ovvero: come salvarsi dall'estinzione

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Venerdì, 8 Ottobre 2010

 

Nelle ultime recentissime rubriche di Greenreport ,"Verso la scienza della sostenibilità", due le abbiamo dedicate ad altrettanti recenti e importanti ricerche pubblicate su prestigiose riviste scientifiche internazionali che aggiungono ulteriore significativa documentazione circa l'impatto globale della specie umana sui sistemi naturali .

Solo per un breve memo ricordo che la prima ricerca , apparsa su "Global Ecology and Biogeography" (nelle precedenti rubriche troverete tutti i riferimenti dettagliati e i siti web relativi a queste ricerche) presenta una mappatura dei biomi della nostra Terra, per il 1700, il 1800, il 1900 ed il 2000 utilizzando tutti i dati a disposizione sinora raccolti e un modello di classificazione dei cosidetti biomi antropogenici, applicato ai dati globali relativi alla densità della popolazione umana ed all'utilizzo e alla trasformazione del suolo.

Risultato: nel 1700, più della metà dell'intera biosfera si trovava in condizioni selvatiche, mentre il 45% era in uno stato seminaturale, con modeste trasformazioni del suolo dovute all'agricoltura e agli insediamenti umani. Nel 2000 invece la maggioranza della biosfera appare interessata da aree agricole ed altri biomi antropogenici, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo ¼ può essere considerato in una situazione selvatica.

L'ecologo Erle Ellis, l'autore principale di questo studio ha coniato, da vari anni, il termine Anthropogenic Biomes, detti anche Anthromes (i biomi antropogenici o antromi), a dimostrazione di come la ricerca scientifica ha accumulato un'ingente massa di dati per poter chiaramente affermare che la presenza umana sulla biosfera è invasiva, diffusa globalmente, visibilissima grazie alle più moderne tecnologie (ad esempio grazie ai raffinati sensori dei tantissimi satelliti da telerilevamento che monitorano lo stato del pianeta quotidianamente) e sta sottoponendo i sistemi naturali ad una pressione insostenibile.

Il secondo studio apparso su "Nature" è dedicato all'analisi delle minacce globali che incombono sulla sicurezza umana per l'approvvigionamento dell'acqua ed al loro legame con le minacce nei confronti della salute della biodiversità degli ecosistemi di acque dolci. La ricerca documenta che quasi l'80% della popolazione umana, ovvero 4,8 miliardi di persone (sugli oltre 6,8 miliardi che oggi abitano il nostro pianeta) , vivono in aree che si trovano ad un alto livello di minaccia per quanto riguarda la sicurezza dell'approvvigionamento idrico e, contestualmente, lo stato di salute della biodiversità degli ambienti di acque dolci.

Si tratta di ecosistemi fortemente minacciati dall'inquinamento, dalla costruzione di dighe, dalla presenza di specie invasive, dalla trasformazione degli habitat rivieraschi, ecc. Lo studio è il primo che correla i fattori che minacciano la sicurezza umana dell'approvvigionamento idrico con la situazione dello stato di salute della biodiversità degli ecosistemi che forniscono l'acqua e dimostra chiaramente la necessità e l'urgenza di gestire in maniera oculata e coordinata, la richiesta di acqua per le società umane conservando e garantendo i servizi che gli ecosistemi di acque dolci offrono al nostro benessere ed alla nostra sopravvivenza.

Da decenni seguo con passione e profondo interesse le ricerche che cercano di comprendere il nostro impatto sui sistemi naturali e, vi prego di credermi, è veramente difficile non condividere le parole di Bill McKibben (Nella foto), un noto autore di volumi sulle questioni ambientali, riportate nel suo ultimo libro "Terraa" (recentemente e meritevolmente pubblicato da Edizioni Ambiente ed uscito in originale con il titolo "Eaarth"), quando ricorda come, negli ultimi 10.000 anni in cui si è evoluta la civiltà umana, nel complesso, abbiamo vissuto, per quanto ci riguarda, in un luogo complessivamente confortevole e scrive: «Nel dicembre 1968 , per la prima volta, abbiamo potuto vedere dal di fuori questo luogo rassicurante e sicuro. L'Apollo 8 era in orbita intorno alla Luna, gli astronauti occupati a fotografare le possibili aree di allunaggio per le missioni che sarebbero seguite. Alla quarta orbita, il comandante Frank Borman decise di far ruotare la capsula rispetto alla Luna e la inclinò, alla ricerca di un punto di riferimento per la navigazione. All'improvviso vide la Terra sorgere dietro al suo satellite. "Dio mio" esclamò "è la Terra". Bill Anders, uno dei membri dell'equipaggio, prese una macchina fotografica e scattò la foto che divento famosa come "Earthrise", l'alba della Terra. Nella foto la Terra è una biglia blu e bianca che fluttua nell'immensità dello spazio e contrasta con la superficie arida della Luna. Borman la ricorda come "la visione più bella e toccante della mia vita, che ,mi provocò un torrente di nostalgia, di pura e semplice nostalgia di casa. Era l'unica cosa in tutto lo spazio a essere colorata, mentre tutto il resto era semplicemente bianco o nero». Il terzo membro dell'equipaggio, Jim Lovell, descrisse l'episodio con parole più incisive: «La Terra mi apparve come una grande oasi».

Ma noi non viviamo più su quel pianeta. Nei quarant'anni passati da allora, quella Terra ha subito cambiamenti radicali, cambiamenti che l'hanno trasformata in un luogo ben diverso da quello cui gli esseri umani hanno prosperato tanto a lungo. Ogni giorno che passa abitiamo sempre meno in un'oasi e sempre più in un deserto. Il mondo che abbiamo conosciuto è finito, anche se non lo abbiamo ancora capito del tutto. Immaginiamo di vivere ancora su quel pianeta, e che le turbolenze che percepiamo intorno a noi rientrino tuttora nelle tradizionali categorie del casuale e dell'anomalo. Ma non è più così, questo è un posto diverso, al punto che gli serve un nuovo nome: Terraa".

Il problema di fondo è chiaro e McKibben chiarisce ancora meglio il suo pensiero: «So perfettamente che la Terra ha sempre subito cambiamenti, e che alcune volte ciò è avvenuto in modo violento, come quando veniva colpita da un asteroide o quando un'era glaciale allentava la sua morsa. Ora ci troviamo in uno di questi momenti: siamo all'inizio del cambiamento più vasto e più profondo mai registrato nella storia dell'umanità, pari solo a quei grandi pericoli che abbiamo potuto leggere nelle tracce lasciate nelle rocce e nel ghiaccio». E, come ben sappiamo, siamo noi gli attori e i protagonisti di questo Global Environmental Change (GEC) al quale ho dedicato, praticamente, tutti gli articoli di questa rubrica e siamo noi che, volendolo, possiamo cambiare rotta e impedire che il nostro pesantissimo intervento sui sistemi naturali del pianeta costituisca la causa della nostra estinzione.

McKibben è convinto che il percorso della crescita continua, materiale e quantitativa, delle nostre società stia inevitabilmente volgendo al termine . Se continuiamo a perseguirlo, anche volendo rendere la stessa "crescita" , più "verde" (fatto che McKibben ritieni impossibile) le cose che si dovrebbero fare, tenendo conto delle tecnologie e delle opzioni alternative, per soddisfare i bisogni e i consumi crescenti di una popolazione crescente, sarebbero straordinariamente imponenti e, francamente, poco credibili.

Prendiamo il caso dell'energia e degli stretti collegamenti con i cambiamenti climatici in atto. McKibben ricorda che per costruire un numero di reattori nucleari convenzionali sufficiente a ridurre di un decimo la minaccia del riscaldamento globale occorrono circa 8.000 miliardi di dollari, senza calcolare l'aumento dei prezzi che questo provocherebbe. Bisognerebbe far entrare in funzione un nuovo reattore ogni due settimane per i prossimi quarant'anni e sarebbe indispensabile aprire, come ricorda l'analista energetico Joe Romm, dieci nuovi depositi come quello di Yucca Mountains nel Nevada, in cui stoccare le scorie radioattive. Intanto i prezzi dell'uranio si sono sestuplicati in dieci anni, perché, come era facile immaginare, anche questo minerale è in via di esaurimento e le miniere devono scendere sempre di più in profondità per cercare di estrarlo. Inoltre dotare le centrali elettriche alimentate a carbone di sistemi per la cattura dell'anidride carbonica costa così tanto che nessuna impresa privata ha intenzione di costruire impianti di questo genere, per non parlare dei milioni di chilometri di condutture che servirebbero per riportare tale CO2 sottoterra; un progetto che secondo il grande studioso di energia, Vaclav Smil, avrebbe le stesse dimensioni delle infrastrutture petrolifere costruite nel secolo scorso.

Il costo dell'energia eolica e solare continua a scendere in proporzione all'aumento del numero di turbine e pannelli solari costruiti. Anche così, però, trovare una soluzione a circa un nono del problema mondiale del riscaldamento globale implicherebbe la costruzione di 2 milioni di grandi turbine eoliche, cioè quattro volte quelle completate nel 2007, ogni anno per i prossimi quarant'anni. Si tratta di un progetto probabilmente fattibile, ma saremmo comunque solo a un nono del percorso che ci condurrebbe ad un valore di 450 parti per milione di volume di concentrazione di anidride carbonica nella composizione chimica dell'atmosfera, un valore che si pone ad un livello alto, se vogliamo evitare effetti disastrosi del cambiamento climatico.

E' evidente che bisogna cambiare rotta. E McKibben dà il suo contributo analizzando "come farcela su un pianeta più ostile" che è anche il sottotitolo del suo libro. (Gianfranco Bologna - greenreport.it)

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